Il “mio” Giro.

ViascontiGalibier

Nibali che alza la “coppa senza fine” con tutta l’Astana è l’ultima immagine che ho visto del Giro 2013 prima di spegnere la TV. Degna conclusione di un Giro appassionante e a tratti forse epico e drammatico. E’ l’ultima immagine che ho visto ieri prima di uscire in bici.
Il pensiero che potevo essere anch’io a Brescia un po’ mi rammarica, ma pazienza. Da mesi avevo fissato un viaggio in bici sul lago d’Iseo, con tappa domenica a Brescia per vedere l’arrivo della corsa rosa. Purtroppo le condizioni meteo avverse mi hanno fatto saggiamente optare per rimandare il viaggio a data da destinarsi.

Come ogni anno il Giro mi ha incollato alla tv, facendomi rientrare di corsa dal lavoro per vedere il finale di tappa. Arrivavo a casa con le gambe doloranti, figlie di una volata degna del miglior Mark Cavendish della Lomellina. Parcheggio selvaggio della bici in cantina e via davanti alla TV, col caschetto ancora in testa, a gustarmi il finale di tappa.

Tanti i momenti indelebili di questo Giro: la maglia rosa di Paolini con dedica al papà appena operato; l’impresa di Nibali, nella tormenta, alle tre cime di Lavaredo; la tappa di Vajont; le lacrime di Agnoli, fido scudiero del suo capitano. Ma, a onor del vero, l’impresa che più mi ha toccato, è stata quella di Visconti sul Galibier. Lui, nato nello stesso giorno di Pantani, al quale era dedicata la tappa. Una tappa nata male a causa del meteo. Modificata, a rischio, passo chiuso, pericolo valanghe, ok si fa ma solo fino alla statua di Marco. Andata. Segno del destino. Visconti, colui che l’anno prima era andato in una crisi più grande di lui a causa del freddo e che si è portato dentro tutto quel gelo per oltre un anno, ritrova se stesso proprio nel freddo, nel ghiaccio, dove si era smarrito l’anno prima. Da quel giorno nei suoi occhi si riaccenderà la luce. E’ quel lato romantico del ciclismo che ti fa chiedere se dietro ci sia la mano di un abile regista o se il caso abbia più fantasia di noi.

Non ci sono solo immagini rosa però, ma anche macchie nere come il caso Di Luca, monito di un paziente, il ciclismo, che sta provando a guarire, ma che ogni tanto ci ricasca. Specchio del nostro Paese forse, dove regna l’indifferenza o l’omertà. Finchè non si romperà il circolo vizioso del “so ma non dico” o del “so ma fingo di non sapere” non se ne uscirà.

C’è la pioggia. A secchiate. E Sir Wiggins ne è forse la vittima più illustre.

Ci sono le critiche per le tappe cancellate o modificate e, di solito, vengono da persone che non sanno neanche come sia fatta una bicicletta. Sabato mentre Nibali si apprestava a scrivere la storia sulle Tre cime di Lavaredo, io mi congelavo sotto una pioggia battente. 2 ore e 30′ pedalando e perdendo la sensibilità della mani e dei piedi. Fradicio. Congelato. Sfinito. E lì allora ti chiedi se chi critica ha mai provato a pedalare al freddo o sotto la pioggia. E lì ti chiedi chi te lo faccia fare, ma la passione non segue le logiche della ragione.

C’è la gente. Tanta. Lungo le strade. Un ritorno a uno sport che è sempre stato popolare e che tale deve rimanere, perchè dal mio punto di vista e come dicevo prima, il Giro è sempre stato lo specchio dell’Italia. Nel bene e nel male. Con i suoi pregi e le sue contraddizioni.

C’è chi il Giro lo fa a modo suo, come Giovanni Battistuzzi che col suo Giro di Ruota ci ha regalato uno spaccato crudo e nostalgico del nostro Paese. Una maglia rosa la meriterebbe anche lui. Leggendolo nei suoi racconti quotidiani, mi è tornata la voglia di dare sfogo al mio sogno di seguire un anno il Giro con la mia bicicletta, in qualche modo.
Prima o poi lo farò. Spero.

Nel frattempo continuo a pedalare, un giorno bagnato dalla pioggia e uno baciato dal sole, soffrendo per il freddo e sorridendo per un’alba inaspettata, nell’attesa di partire sognante per qualche viaggio. Il mio Giro.

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