Domenica 8 marzo. Festa della donna. Immagino già le ruote correre tra bancarelle di mimose assiepate nei centri dei paesi, i fiori che sbocciano lungo la strada e il profumo di magnolia che investe i polmoni.
Invece no, tutto questo non avviene, o forse avviene in parte, ma non ce ne rendiamo conto.
Claudia e io ci svegliamo presto, pronti a salire i sella, oltrepassare il confine svizzero e scalare il Monte Generoso, ma il risveglio si tramuta in incubo: sul web le notizie si rincorrono, si accavallano, si calpestano come nuvole nel cielo in un giorno di vento. Ci svegliamo con la Lombardia diventata tutta zona rossa, o arancione o qualsivoglia color paura. Idem per le province vicine. Con un DPCM firmato nella notte, il Presidente del Consiglio allarga il recinto dal quale non si può uscire e nel quale non si può entrare. Il Covid-19 non riguarda più solo Codogno, Vo’ Euganeo e gli altri paesi, ma bussa alla porta di tutta la regione e oltre.
“…Sopravvissuti a vecchi e nuovi dolori
Che aspettiamo i vaccini, nel frattempo chissà
Sopravvissuti a tutto questo letame
Quanti bagni e profumi e mascherine antigas...”.
Cosa facciamo? Ce lo chiediamo, ci guardiamo negli occhi cercando risposte che non abbiamo nello sguardo dell’altro. Alla fine, scossi e increduli, decidiamo di rivedere il nostro giro, restare nei confini regionali come prescritto dal DPCM e inoltrarci nel varesotto. Una delle poche salite che mi resta da fare è il Cuvignone, ascesa che Claudia non digerisce proprio. Non è un caso che sia rimasta l’unica “da battezzare”, mentre altre le abbiamo percorse più volte.
Quando mi dice “Potremmo fare il Cuvignone” capisco che davvero in questa strana domenica di inizio primavera qualcosa non quadra. Se prendi in considerazione di fare la cosa che odi, pur di avere una sensazione di normalità, vuol dire che qualcosa non torna. Decidiamo di avviarci dandoci poche, semplici regole: niente soste dove c’è gente, non ci accodiamo a nessuno e facciamo in modo che nessuno si accodi a noi.
Sono già le 9 passate quando diamo il primo colpo di pedale, ma la voglia e la necessità di capire qualcosa di più di cosa ci sta succedendo ha avuto la meglio.
Ci avviamo verso il Ticino e, giunti a Somma Lombardo, sfioriamo il ponte di Porto della Torre che segna il confine con il Piemonte. Lo guardiamo, immaginandoci una volante della polizia oltre il confine, pronta a inseguirci come fuorilegge nelle praterie americane con lo sceriffo alle calcagna. Non diamo seguito alle immagini alla “Thelma e Louise”, non varchiamo quel confine e proseguiamo nel perimetro regionale fino a raggiungere Sesto Calende. Sembra assurdo pensare a quante volte abbiamo superato il ponte di Sesto per andare il Piemonte e pensare che oggi non possiamo farlo, ci riempie di tristezza e smarrimento. Ci chiediamo quando sarà possibile farlo di nuovo, ma la domanda cade nello stomaco come un sasso in un precipizio.
Costeggiamo il lago Maggiore fino a Laveno Mombello, su un asfalto inverosimilmente deserto che dovrebbe in qualche modo farci sentire più al sicuro. Paradossalmente invece, ha l’effetto opposto, chiedendoci nei rispettivi silenzi cosa stia accadendo.
Lasciamo la SP69 lungolago per prendere a destra la SP394 fino a raggiungere Cittiglio, dopo 57Km nei quali i pensieri hanno corso con noi tra le pedivelle e la gola.
Prendiamo a sinistra seguendo le indicazioni per il Passo del Cuvignone e, per un po’, salutiamo ogni forma di civiltà. La strada prende da subito a salire decisa, dapprima tra le case del paese, che ben presto lasciano spazio a un fitto bosco di castagni. Poche le viste sulla vallata sottostante, mentre l’asfalto si ribella con pendenze che spesso e volentieri superano la doppia cifra. Dopo i primi 3Km, a quota 516m, la salita si ammorbidisce un po’ concedendo al nostro fiato corto delle pendenze più umane. Continuiamo così, solitari e fuori dal tempo, nel nostro andirivieni di tornanti fino a raggiungere, dopo 3,5Km la quota di 750m. Qui, in prossimità di Sella delle Casere, la lingua scura d’asfalto si stizzisce di nuovo, facendosi irta e impervia come nella prima parte. Anche qui poche viste, quasi gli alberi secolari volessero proteggerci da tutto il resto, da quel che c’è là fuori, da qualche parte, tra il cielo e la terra.
A quota 900m notiamo ai lati della strada i primi cumuli di neve, che metro dopo metro, ricoprono i prati e i boschi che si alternano al nostro fianco. Superiamo per la prima volta in questo 2020 la quota di 1000m, quel segnale che ormai l’inverno sta passando e la primavera è all’orizzonte, anche se quel manto bianco attorno a noi non lo lascerebbe pensare. Ancora ignoriamo però quell’inverno ben peggiore che ci aspetta e una primavera che forse, quest’anno, non si farà vedere. Quei 1000m superati per la prima volta l’8 marzo ho paura che resteranno tali per un po’.
Ci copriamo e ci gettiamo in discesa, dove è necessario avere la massima prudenza per via delle curve e dei detriti che si trovano spesso sulla sede stradale.
Giunti a Sant’Antonio prendiamo la strada che ci riporta verso il lago Maggiore, con il quale ci ricongiungiamo a Luino. Stanchi e pensierosi valutiamo il da farsi: alla fine stravolgiamo nuovamente i nostri piani e scegliamo di rincasare seguendo la strada lungolago già percorsa, in parte, all’andata. Torniamo a casa dopo 149Km, forse per una volta più provati dalla testa che dalle gambe.
Ora dopo ora, giorno dopo giorno, la situazione si fa sempre più drammatica, fino a sancire la chiusura dei confini, dei voli, delle scuole, dei negozi, dei bar, teatri, cinema e di ogni attività non necessaria, su tutto il territorio nazionale. L’Italia è tutta una grande zona rossa dove bisogna stare chiusi in casa. Il sistema sanitario è oberato dai casi più gravi, da quelli in rianimazione e dai morti che ogni giorno si accumulano come in un nefasto bollettino di guerra. La gente è chiusa in casa, si guarda dalle finestre cercando conforto, dove come le bandiere della pace di qualche anno fa, spuntano fogli e striscioni con un arcobaleno e la scritta “Andrà tutto bene“.
Tutto improvvisamente diventa insolito, un deserto urbano, una notte buia e solitaria che continua anche con il sole. Bisogna solo aspettare e stare in casa, guardando un mondo vuoto di cristallo, dal vetro della finestra. E così facciamo, appendendo anche noi le nostre bici in garage per un po’, perché, anche se non è espressamente vietato uscire in bicicletta, rischiare un incidente in questo momento e andare a oberare un sistema sanitario già al collasso dove angeli in camice bianco si stanno facendo in quattro, sarebbe da irresponsabili.
Anche i professionisti si sono fermati e hanno sganciato lo scarpino: Strade Bianche, Tirreno – Adriatica, Milano – Sanremo, Giro di Sicilia e, ultima notizia, anche il Giro d’Italia che spesso è stato il simbolo di un ritorno alla normalità, sono stati rimandati a data da destinarsi.
Il campionato di calcio, di basket, di pallavolo, tutto lo sport e, non ultime, anche le nostre amate randonnée, sono state rinviate a chissà quando.
Mentre scrivo, mi chiedo proprio quando sarà possibile risalire in sella, faticare, oltrepassare di nuovo un confine o scalare una montagna. Non so come e quando ci riprenderemo da tutto questo, quale sarà il prezzo da pagare oltre a quello che stiamo già pagando, ma la sensazione è che, come ha scritto Giovanni Battistuzzi su Il Foglio, ‘Quest’anno la primavera non arriverà’.
E allora la vista si annebbia, offuscata dalle lacrime e dalle storie più tragiche che leggiamo ormai quotidianamente, ma quando torna a fuoco, dopo essersi asciugati gli occhi, lo sguardo si concentra su quell’arcobaleno colorato appeso alla finestra di fronte e la rassicurazione più semplice che possiamo sentire: quella dei nostri genitori, dei nostri nonni, degli anziani: “Andrà tutto bene“.
E anche se ancora non sappiamo quando, ci convinciamo che la primavera arriverà lo stesso, magari un po’ in ritardo, rimasta imbottigliata tra il silenzio e lo smarrimento. Ma tornerà. E mentre anche il tanto odiato Cuvignone ora ci sembra un dolce ricordo, sappiamo che torneremo ad alzarci sui pedali, calpestando le pedivelle col fiato corto, sguardo rivolto alla cima e l’aria che ci accarezza il viso. Perchè
“…Persi o no siamo ancora in piedi…“.