Notavo il tuo passo incerto sin dall’inizio della via. Per me erano le ultime pedalate mattutine, per te i primi passi di una giornata eterna.
L’andatura altalenante, come una pianticella sottile scossa dal vento; il sorriso sotto la folta barba brizzolata e una parola gentile per tutti.
Ho sempre pensato che non te ne fregasse niente della maggior parte delle cose che ti raccontavano, ma tu fingevi di interessarti un po’ di tutto e per ognuno avevi una parola di conforto.
Più le ore passavano però, più la giornata per te si faceva pesante, fino a diventare insostenibile. Le mani tremavano, lo sguardo era offuscato e le distanze reali non corrispondevano più a quelle della tua mente. Ogni mattina arrivavi ripetendoti che “oggi non sarebbe accaduto”. A metà giornata ti convincevi “che tanto nessuno se ne sarebbe accorto”. Il pomeriggio, che qualcuno se ne accorgesse o no, non ti importava più: avevi già mollato gli ormeggi, lasciandoti andare alla deriva.
I pomeriggi prendevi sempre tè freddo. Ti osservavo sollevare quella lattina tra le grosse mani e portarla con fatica alle labbra secche.
I corridoi si facevano talmente piccoli e le curve talmente strette, che spesso ti ritrovavi appoggiato al muro.
Mi sono chiesto spesso cosa ti abbia portato a lasciare il nostro mondo e partire per uno fatto da quello che i tuoi occhi confusi e annebbiati ti facevano vedere.
Guardavo i tuoi piedi quando barcollavi e ho sempre visto due grosse catene di tristezza attaccate alle tue caviglie. Tristezza che ti trascinavi dietro e che probabilmente non sopportavi più. Poi, un giorno, hai scoperto che con un po’ di vino quella tristezza si faceva più leggera.
Una volta mi hai raccontato che il giorno più felice della tua vita è stato quando c’è stato il terremoto nella tua città. Eravate rimasti tutti per strada, senza casa, senza cose, ma per una volta eravate tutti insieme.
Felici.
Poveri, ma felici.
Allora ho capito che ti sentivi molto solo. Attorniato da tante persone, da tante cose, ma nessuna davvero presente. Solo il vecchio John Barleycorn ti ascoltava davvero, ma ultimamente, anche lui, non era più quello di un tempo.
Non eri bravo a fingere però e tutti il pomeriggio sapevamo e vedevamo quanto goffamente cercavi di nascondere l’evidente. Fingevamo di non sapere, facendo stupide battute dietro agli angoli bui o strozzando le risate nelle nostre gole vigliacche. Sono certo che, anche se silenziose, quelle risate tu le sentivi, ma ormai non facevi più parte del nostro mondo. Ormai navigavi senza meta nel tuo.
Oggi che non ci sei più, capisco bene come tutti noi in fondo viviamo in un nostro mondo immaginario, solo lo teniamo ben separato da quello che consideriamo “reale”, prestando attenzione che non si miscelino mai. Altrimenti saremmo considerati dei pazzi dagli altri e il giudizio altrui è la cosa che più ci interessa per essere accettati.
A te questo non importava e forse, in fondo, eri il più coraggioso di tutti.
Tutti erano i benvenuti, nel tuo mondo “reale” o nel tuo mondo “offuscatamene reale”.
Oggi mi manca vedere la tua figura incerta in lontananza quando arrivo la mattina sui pedali e forse ora dico che avevi ragione: a volte serve un terremoto che ti porti via tutto per apprezzare davvero le persone che ti rimangono accanto, ma se poi ti accorgi che accanto non hai nessuno… Beh allora forse tutti partiremmo per il nostro immaginario mondo, in compagnia del vecchio John Barleycorn.