Veleno senza traccia

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La luce dorata del mattino mi accompagna mentre muovo le prime pedalate. Nuovamente sulla sponda del Garda che seguo per 40km abbondanti. Pedalata dopo pedalata però inizia a soffiare sempre più forte un vento ribelle e contrario che mi respinge. La fortuna mi assiste e riesco ad accodarmi a un gruppo di ciclisti che mi permettono di risparmiare un bel po’ di energie. Mi serviranno poi. Giunti a Castelletto, il gruppo al quale mi ero accodato si è praticamente sfaldato: chi ha mollato il colpo, chi ha girato la bici alla ricerca di un vento migliore. Gli ultimi due apripista decidono di fermarsi per un caffè. Proseguo da solo, chinandomi sul manubrio. Sguardo basso e posizione da penitenza, ma il vento non si lascia impietosire. Fortunatamente il mio incedere controvento dura solo 6km perché, giunto a Assenza, poco dopo Brenzone, abbandono la strada lungolago e il vento sfavorevole. Finisco una penitenza, ma ne inizio un’altra rappresentata da una rampa di garage all 11% e so bene che non sarà l’unica. Anzi, a pensarci bene, quella prima mitragliata nelle gambe non è altro che un avvertimento, quasi la strada mi stesse dicendo: “Fermati ora, sei ancora in tempo”. Sono testardo, vado avanti, godendomi la vista sul lago mentre le pendenze scemano a zero per 1,5km illusori. Giunto a Castello, si va in scena. Il nome? Tutto un programma: Punta Veleno. Dall’abitato di Castello sono altri 8km con pendenze per cuori forti. Il mio obbiettivo? Farla senza mettere il piede a terra. Ci sarà da soffrire. Non importa quanto e come, ma sono deciso a provarci. Imbocco la piccola strada che sale dritta come un fuoco d’artificio sparato in cielo, mentre un cartello sulla destra annuncia la prima piaga: prossimo km pendenza media 13%!

Punta Veleno non è una salita, è una sfida faccia a faccia con il muro d’asfalto che hai di fronte, è uno scherzo della natura, uno scherzo dell’uomo, uno scherzo di cattivo gusto. E’ un fucile caricato a pallettoni di sudore. I tornati? 20, numerati dal 20 all’1. Ma non sono tornanti, sono oasi per riprendere fiato. Frammenti pianeggianti che percorri in quel lembo di spazio dove finisce l’asfalto e comincia la terra pur di prenderli il più larghi possibili. Sono le uniche possibilità di bere e, dopo un paio, opto per tenere la borraccia già aperta di modo da non rischiare di ritrovarmi ancora la borraccia in mano mentre l’asfalto riprende a arrampicarsi sulla montagna. Al tornante 17 noto a bordo strada due sedie di plastica, “Se già qui non ce la fai più, siediti e aspetta che passi il tuo cadavere” sembrano dire. Proseguo, peso gettato in avanti per tenere a terra la ruota anteriore, fiato corto, andatura scomposta, lacrime di sudore che bagnano la strada. 16%, 17%, 17%. Misure di una salita formosa. Pendenze medie che ti mandano fuori giri. Niente foto perché questo è il prezzo da pagare se vuoi farla tutta senza fermarti: impossibile infatti immortalare quel momento e proseguire intanto agonizzante sui pedali. Penso allora che in fondo quella salita è un veleno che non lascia traccia, come quello versato sulla spada che trafigge mortalmente Amleto e Laerte. Così è questa salita: non lascerà segni tangibili di se, se non nelle gambe e, nel bene o nel male, nello spirito. Anche sul mio gps non vi sono segni di quel calvario: vado talmente piano che pensa sia fermo. Ma non lo sono, vado avanti, a fatica ma vado avanti, pedalata dopo pedalata, tornante dopo tornante. Quando noto il cartello “Pendenza media 13%” sono quasi contento, quasi fosse una pendenza media normale, pedalabile. Non lo è, ma forse è segno che il serpente indiavolato sotto le ruote sta cominciando a cedere. L’ultimo cartello, dice 7,5% e, lasciato alle spalle l’ultimo tornante, la strada spiana completamente. Capisco di avercela fatta, mentre un panorama mozzafiato si materializza davanti agli occhi. Ora potrei farla una foto se volessi, ma ormai ho deciso che non mi porterò via niente di materiale da questa salita, ma solo le sensazioni, le emozioni, i dolori e la soddisfazione che sento crescere nel petto. L’ultima rampa è un saluto e un avvertimento “Non dimenticare quello che hai passato”. Tranquillo, non lo dimenticherò. Arrivo così al cartello che sancisce la fine della salita e finalmente posso fermarmi, chinarmi sul manubrio e comprendere di esserci riuscito, di non aver mollato. Ricurvo sui miei pensieri, penso che Veleno è anche il nome del protagonista di una canzone di Ligabue: “I duri hanno due cuori”… Quelli che ci vogliono per arrivare in cima!

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La discesa, obbligata dal lato opposto che mi riporta al punto di partenza, è il giusto premio per chi è sopravvissuto al Veleno. Qualcuno potrebbe illudersi di essere diventato immortale. Non lo sei, hai solo scritto una bella storia da raccontare agli amici… Qualcuno ci crederà, qualcuno dubiterà. E tu non avrai foto da mostrare per dimostrare la tua onestà, ma dentro di te, saprai sempre la verità.

Percorso
Altimetria Punta Veleno